Chi fu L.S. Senghor

Léopold Sédar Senghor nacque in Senegal all’inizio del XX secolo. I griot raccontano che è nato in una capanna vicino all’oceano, sulla costa, a Joal, il 15 agosto 1906, il 9 ottobre secondo l’anagrafe comunale. Il nome è Sédar “colui che non conosce la vergogna” o meglio “che non verrà mai umiliato”.

Joal!

Mi ricordo,

Mi ricordo le signare all’ombra verde delle verande

le signare dagli occhi surreali come un chiaro di luna sul greto del fiume.

Mi ricordo i fasti dell’Occaso

Dove Coumba N’dofène voleva far tagliare il suo manto regale.

Mi ricordo i banchetti funebri fumanti del sangue delle greggi sgozzate

Del chiasso delle querelle, delle rapsodie dei griot.

Il padre, Diogaye Basile, di stirpe Sérère, ricco commerciante, cattolico, poligamo, godeva di un’ottima reputazione fra i suoi compaesani grazie al suo importante passato culturale. Egli affidò Senghor, all’età di sette anni, a Padre Léon du Bois, parroco di una scuola cattolica della zona.

La chiesa lo battezza Léopold. Il cognome indica una parola portoghese “ senhor”, (poiché nel XV secolo, il Portogallo ha dominato il Senegal). Dopo le elementari a N’Gazobil, Sédar prosegue gli studi nel collegio Libermann a Dakar. Infine, il trasferimento a Parigi dove studia presso il prestigioso liceo Louis-le-Grand (tra gli amici di allora, il compagno di scuola Georges Pompidou e il poeta Aimé Césaire). Una laurea in lettere alla Sorbona completa i suoi brillantissimi anni di studi.

Siamo nel 1933. Senghor diventa cittadino francese e questo gli permette, due anni dopo, di essere il primo uomo di pelle nera ad insegnare in francese. Sono gli anni che precedono la Seconda guerra mondiale. Lo stesso Senghor li descrive nel Messaggio di Goethe ai nuovi negri:

“Gli anni tra il ’30 e il ’39 furono anni di ebbrezza per il Nuovo Negro in Francia. Muniti delle armi miracolose della scrittura automatica, scagliavamo zagaglie avvelenate e coltelli da lancio a sette lame, facevamo saltare tutti i vulcani d’Etiopia e seppellivamo, il giorno dell’Ascensione, tutti i santi sotto la pioggia di fuoco del nostro rancore.”

Durante la Seconda guerra mondiale fu richiamato alle armi, cadde nelle mani dei tedeschi e finì in un campo di prigionia a Poitiers in Francia. Ma non tutto il male viene per nuocere, perché il poeta ne approfitta per studiare a fondo la cultura tedesca e il grande Goethe. Scrive anche bellissime poesie sotto lo sguardo delle sentinelle naziste e appena tornato dalla guerra pubblica Chants d’ombre, Canti d’Ombra, nel 1945, che suscitò unanime approvazione. Nello stesso anno iniziò la sua carriera politica che lo portò alla presidenza della Repubblica Senegalese dal 1960 al 1980.

Nel 1948 uscirono le raccolte Hosties noires, Ostie nere, un’opera fondamentale per la poesia africana poiché avviò l’antologia Nouvelle Poésie Nègre et Malgache. Nacque presto un rapporto di collaborazione, oltre che di amicizia, col filosofo Jean Paul Sartre. La prefazione di Sartre all’antologia Orfeo negro fu l’avvenimento di quegli anni.

Nel 1949 Senghor pubblica Chants pour Naett dove delinea una sorta di teoria di socialismo africano. Ma facendo un passo indietro nel tempo, per parlare del fulcro del suo pensiero, è determinante la sua conoscenza con Aimé Césaire e Léon Gontras Damas con i quali fonderà il giornale “Studente Nero” – L’Étudiant noir – che sarà di supporto al Movimento della Negritudine. A partire da quel momento tutta la sua vita sarà dedicata a porre nella giusta luce la cultura africana:

“Per l’uomo di cultura francese, un bianco non potrà parlare convenientemente di Négritude perché non ne possiede l’esperienza interiore, perché le lingue europee mancano delle parole adatte per descriverla.”

Mentre il filosofo Heidegger sostiene che la “Negritudine è l’essere nel mondo del negro”, Sartre evoca la necessità di infrangere le diversità culturali tra europei e negri; Léon Frobénius invece teorizza che L’Africa è civilizzata fino al suo midollo spinale, Césaire sottolinea nel suo Cahier d’un retour au pays natal: “ Se parlo è per voi che parlo/La mia bocca sarà la bocca delle sofferenze che non hanno bocca/La mia voce la libertà che s’affaccia al buio della disperazione.”

Interessante è la definizione di poetica che dà Senghor: “I poeti negri, quelli che appaiono nelle antologie europee ma anche quelli della tradizione orale, sono anzitutto degli auditivi, dei cantori. Essi sono sottomessi tirannicamente alla “musica interiore”, e quindi per prima cosa al ritmo. Ricordo che i poeti ginnici del mio villaggio, i più primitivi, non riuscivano a comporre che nell’estasi del tam-tam, sorretti, ispirati, alimentati dal ritmo del tam-tam.

È un’espressione, una frase, un verso che, prima di tutto, mi soffia all’orecchio una sorta di leitmotiv, e quando inizio a scrivere non so come sarà la mia poesia. È questa la particolarità del poeta negro. C’è nella poesia degli africani la presenza solenne degli spiriti.

Unico rammarico di Senghor è che la politica ha rosicchiato il tempo dedicato alla poesia: Avevo quindici anni quando scrivevo i primi versi… un giorno, a trent’anni, rileggendoli ho bruciato tutto senza esitazione. Avevo scoperto la politica e i problemi del mio popolo.

È bene ricordare che questo fervente cattolico ha governato un Paese composto per il novantacinque per cento da musulmani, dando un esempio di libertà, tolleranza ed intelligenza, aprendo la via alla democrazia.

Di lui ha detto il poeta Andrea Zanzotto: Grazie ad una sua integrazione con la lingua francese, quella dei dominatori, riuscì a trasfondere tutti i valori non propriamente poetici nei suoi versi. Si deve a Senghor la presa di coscienza della realtà nazionale del Senegal e della necessità di convivenza di due culture diverse: quella perdente, l’africana, seppe imporsi ed essere valorizzata. Proprio questa cultura perdente rispetto a quella dominante divenne la base dell’originalità del Senegal (da Poesia – Edizioni Crocetti).